COME LAVORO
Rispetto al passato, oggi i social piuttosto che film o le serie tv trasmettono una rappresentazione di cosa avvenga nella stanza di psicoterapia, per cui spesso capita che le persone vengano già con un’idea di cosa vogliano o che siano stati amici o conoscenti a consigliare per esperienza diretta un percorso terapeutico; questo se può essere un vantaggio perché oggi si è meno imbarazzati e più consapevoli rispetto a qualche anno fa, non toglie un elemento fondamentale di qualsiasi processo di cura: la consapevolezza. Come avviene in ambito medico, infatti, anche nella psicoterapia ci sono molteplici approcci e orientamenti, ognuno con le sue specificità e quindi un primo passo importante, è verificare quale approccio sia più indicato per la sintomatologia del paziente.
In questo primo step, io personalmente penso che rientri anche la scelta dello psicoterapeuta, dal momento che il rispecchiamento emotivo, quella sorta di “feeling” relazionale intangibile è il presupposto indispensabile di qualsiasi relazione basata sulla fiducia. Questo concetto si collega direttamente al concetto di attaccamento sicuro di J. Bowlby, e scegliere consapevolmente il terapeuta significa non affidarsi ciecamente all’esperto consigliato, ma piuttosto scegliere di ascoltare se stessi e partecipare consapevolmente ad un processo di cura. Gli studi di neurobiologia odierni evidenziano infatti quanto sia fondamentale per il benessere psicologico l’integrazione, intesa come un meccanismo che armonizza le diverse parti di noi stessi e che ci collega al mondo esterno, facendoci sentire connessi agli altri e l’integrazione si forma attraverso le esperienze di attaccamenti sicuri (Siegel, 2001). Scegliere anche emotivamente il terapeuta, significa legittimare il proprio sentire e guardare alla psicoterapia come una modalità relazionale per ridare armonia e integrazione all’interiorità della persona e al suo mondo circostante.

“Le relazioni sono il modo in cui energia e informazione vengono condivise, mentre ci connettiamo e comunichiamo l’un l’altro. Il cervello è il meccanismo fisico attraverso cui energia e informazione fluiscono. La mente, invece, è il processo che regola il flusso di energia e informazione. Queste tre dimensioni formano il triangolo del benessere.” – Daniel Siegel
Se ci sono questi presupposti, insieme con il paziente concordiamo gli obiettivi e le aspettative, formulando un piano terapeutico che si inserisce in una cornice di aspetti pratici (il cosiddetto setting terapeutico), definendo la durata delle sedute, la loro frequenza, gli aspetti economici, ecc. e in cui vi è la massima tutela della privacy garantita dal segreto professionale.
Lo Psicoterapeuta
Come ho già detto, la formazione in EMDR ha fortemente influenzato il mio modo di impostare il lavoro clinico, sia perché è un approccio evidenced based, per cui ha una base scientifica, sia perché offre anche una modalità di rileggere la storia di vita con una lente particolareggiata, in cui i “traumi”, intesi come eventi avversi (target) diventano i centri nevralgici da cui partire. Per cui seguendo il procedimento EMDR, che si articola in 8 fasi, inizio con un’anamnesi e la pianificazione del trattamento, per poi ricostruire le origini e la storia della sofferenza della persona e procedere con la preparazione del paziente con tecniche di stabilizzazione e rilassamento, delineando in un piano terapeutico i ricordi target su cui lavorare.

“La consapevolezza di me è mutata nel tempo: oggi significa rallentare e ascoltarmi. Nel’impegno quotidiano di farlo tutti i giorni, cercando di bilanciare le esigenze della vita quotidiana con la cura del mio stile di vita, cresco come psicologa, diventando più comprensiva ed empatica. Spesso incoraggio i pazienti a prendersi cura di sé, a connettersi ai loro bisogni, ma incontro resistenze:
“NON HO TEMPO” – “MI SPIACE, HO DIMENTICATO”
In queste risposte, intravedo la fatica che facciamo tutti nel prenderci cura di noi, per cui rimodulo con loro i piccoli gesti di cura che possono dedicarsi: stanno facendo dei passi per ritrovarsi, non importa se sono passi lenti o piccoli, sono in cammino”.
La psicoterapia essendo un processo di cura basato sull’attenzione all’altro nella sua interezza e sulla relazione, secondo me necessita di una disposizione d’animo gentile e sensibile ai sentimenti altrui, “senza alcun giudizio”, che corrisponde alla definizione data da Gilbert di compassione. Poiché accompagnare i pazienti nel percorso di cura spesso prevede per noi terapeuti il superamento delle nostre difficoltà emotive, la compassione è anche un atteggiamento verso noi stessi, che non dobbiamo guardare alla terapia come una sfida da superare o al benessere del paziente come un traguardo da raggiungere, ma dobbiamo in primis noi stessi accettare e non giudicare le nostre emozioni “difficili” esperite in terapia. Per essere compassionevoli, bisogna ovviamente anche avere empatia, perché il terapeuta sente le emozioni dell’altro e restituisce uno sguardo “riparativo”, perché le persone ferite sono persone spesso confuse sul loro senso del sé e sui loro reali bisogni emotivi.

“Se nessuno ti ha mai guardato con occhi amorevoli o si è aperto in un sorriso quando ti vede o è corso in tuo aiuto quando eri in difficoltà (invece di dire “smettila di piangere o ti darò una buona ragione per farlo!”), allora sei incline a una relazione con te stesso che sarà disorganizzata e frammentata. Sei costretto a scoprire modi alternativi di prenderti cura di te”- Bessel van der Kolk
Proprio perché spesso i pazienti hanno vissuto queste esperienze avverse, che hanno impattato su di loro e creato a livello implicito schemi e convinzioni distorte nella loro lettura delle relazioni, compresa quella terapeutica (transfert), io credo che sia fondamentale anche instaurare un sistema cooperativo fra paziente e terapeuta. Perché se sono esplicitati e condivisi gli obiettivi, se le emozioni vengono convalidate in un dialogo cosciente e paritetico, se non esiste lo psicoterapeuta esperto e il paziente sofferente e dimesso, si crea un processo di cura veramente attivo (Liotti e Monticelli, 2014).